Nei giorni scorsi il Dottor Marcello è stato intervistato dalla rivista online www.parolequotidiane.com
Ne è nata un’intervista diversa dal solito: personale, profonda e ricca di spunti interessanti.
Ve la proponiamo di seguito.
Quando entri nello studio del dottor Marcello Canestri non trovi solo una poltrona da dentista e degli strumenti chirurgici: ti accorgi subito di essere dentro un pezzo di storia personale, di vita intrecciata a passione, sacrifici e sogni. Lui oggi è un professionista conosciuto (lo Studio Canestri si trova in Corso Cento Cannoni 25 ad Alessandria), stimato, con uno studio che sembra una piccola comunità dove lavorano decine di giovani. Ma dietro questa realtà c’è un percorso lungo, spesso diverso da quello immaginato.
Gli ho chiesto di tornare indietro, ai primi anni, quando il suo studio non era ancora ciò che conosciamo oggi. Mi ha sorriso, come chi sa che per raccontarsi deve spogliarsi di qualche certezza.
«Io dovevo fare il pediatra, era quello il mio sogno. Mi sono ritrovato a fare il dentista quasi per necessità. Lo studio, quando lo aprii, non era un sogno ma un punto di partenza, un modo per sopravvivere, per crearmi una famiglia. Ero un cucciolo, sapevo fare poco e imparavo giorno per giorno».
Gli chiedo se avesse paura all’inizio. Mi spiazza con la sua sicurezza.
«No. Non ho mai avuto paura, o se ce l’avevo facevo finta di niente. Era normale: ti laureavi, ti rimboccavi le maniche, aprivi. Ma soprattutto facevi gavetta. Io lo dico sempre: oggi i giovani vivono di tutorial, credono che basti guardare un video per sapere un mestiere. Invece ci vuole tempo, sacrificio, bisogna sbagliare, essere corretti e imparare guardando chi ti sta davanti».
Mi racconta che la chirurgia è stata il suo vero amore, l’impronta indelebile della sua formazione.
«Se mi chiedi di devitalizzare un dente, vado in crisi. Ma se mi chiedi un intervento, io sono pronto. Ho imparato a fare quello, la mia formazione è stata chirurgica e non l’ho mai dimenticato».
Negli anni ’90 il dentista era un tuttofare, oggi invece la super specializzazione regna sovrana. Lui ha vissuto questa trasformazione sulla sua pelle.
«Prima facevi un po’ di tutto: otturazioni, dentiere, estrazioni. Oggi invece ci sono professionisti che fanno solo conservativa, solo chirurgia, solo protesi. È cambiato tantissimo. Io stesso ho dovuto reinventarmi dopo vent’anni di maxillo-facciale ospedaliero. Ho abbandonato l’ospedale e ho ricominciato da odontoiatra. È stata dura, ma mi ha reso quello che sono».
E come si lavorava senza la tecnologia di oggi? Scanner, software, diagnostica 3D? «Sembrerà preistoria: lastre, impronte in gesso, simulazioni manuali. Operavamo fratture mandibolari senza TAC, perché spesso non si poteva fare. Oggi è come passare da una vecchia auto col cambio manuale a una supercar automatica. Ma proprio per questo ho imparato tanto: la diagnosi deve farla il medico, non la macchina. La tecnologia deve essere un supporto, non un sostituto».
Gli chiedo di un caso che non dimenticherà mai. Non sceglie il più spettacolare, ma quello più umano.
«Una paziente a cui ricostruii un dente con poco, vergognandomi quasi di chiederle soldi. Le dissi: durerà poco. L’ho rivista dopo tanti anni e la ricostruzione era ancora lì. Forse fortuna, forse attenzione. Poi ci sono i grandi traumi ospedalieri, quelli non si dimenticano. Come quando stava nascendo mio figlio e io ero in sala operatoria a ricostruire un uomo finito sotto un trattore. Sono arrivato in tempo per vederlo nascere, ma non dimenticherò mai quella corsa tra due vite».
Quando parliamo di suo figlio Andrea, che oggi lavora con lui, la voce cambia. Diventa padre prima che medico.
«Era il mio sogno. Lavorare con mio figlio è il massimo. Condividiamo gioie e fatiche, ma soprattutto vedo in lui quello che ho trasmesso. Quando lo ascolto parlare con un paziente, mi rivedo. È un vanto enorme».
Gli chiedo chi è cambiato di più in questi anni: lui o i pazienti.
«Entrambi. I pazienti oggi sono più esigenti, arrivano informati da Google, ma spesso male. Devi convincerli che ciò che hanno letto non è sempre giusto. Io invece credo di essere rimasto fedele a me stesso: correttezza, serietà e mai mettere l’economia davanti al bene del paziente. Questo non è cambiato».
Se potesse parlare al sé stesso di trent’anni fa, cosa direbbe?
«Impara bene un mestiere. La formazione è la chiave di tutto. Se sai lavorare, di fame non muori. Fare il medico non è fare un’otturazione, è un’altra cosa. Serietà, competenza e rispetto: sono queste le fondamenta».
Ci tiene a parlare dei giovani, i suoi collaboratori. È un tema che gli sta a cuore.
«Io credo tantissimo nei giovani, sono il futuro. Ma devono capire che serve sacrificio. Ai miei tempi c’era una scala da fare: primario, aiuti, assistenti. Ora vengono buttati subito in sala con una turbina in mano. Io li incoraggio, do loro spazio, ma ricordo sempre che qualche calcio nel sedere serve per crescere. Ho dei ragazzi bravissimi, e quando sono bravi spaccano, anche più di noi».
A questo punto, il dottore si ferma un attimo. Mi dice che non sarebbe qui senza chi ha creduto in lui. Ringrazia la famiglia, lo zio con cui ha lavorato anni, i colleghi ospedalieri che gli hanno insegnato a rispettare i pazienti. Ricorda i viaggi a Parigi per imparare la chirurgia ortognatica, i maestri silenziosi che lo hanno guidato. È un fiume di gratitudine.
E poi c’è la magia del suo studio, che dopo trent’anni è diventato una seconda casa.
«Il lavoro non è mai stato un peso per me. La mattina mi sveglio felice di venire qui, di vedere i miei collaboratori, i miei amici. Qui ho costruito una famiglia. Non c’è distacco tra la mia vita e lo studio: sono la stessa cosa. È fatica, certo, ma anche divertimento, passione, senso di appartenenza. E credo che i pazienti lo sentano. Io sono quello che sono, dentro e fuori dal lavoro».
Gli chiedo se c’è ancora qualcosa che vuole imparare. Sorride.
«Io imparo tutti i giorni. I giovani mi insegnano la tecnologia, i nuovi modi di affrontare i problemi. A volte correggo, a volte apprendo. Nel nostro lavoro non si smette mai di imparare. L’errore più grande sarebbe la presunzione».
Alla fine mi chiedo cosa sia davvero, per lui, questo lavoro. E lì, la risposta è la chiave di tutto.
«Oggi il lavoro è una parte della mia vita, non più tutta la mia vita come un tempo. Ho perso ore da padre, lo ammetto, ma ho guadagnato la possibilità di trasformare il lavoro in gioia. Non in fatica, ma in soddisfazione. È casa mia, è la mia gente, è il posto dove riesco ancora a brillare negli occhi quando ne parlo».
Poi sorride, con quella luce che lo tradisce ogni volta che pensa al futuro, e aggiunge con un lampo ironico ma sincero:
«Tra dieci anni mi vedo ancora qui, nello studio, a operare. Non riuscirei a farne a meno. Ma mi vedo anche su un campo da calcio, a fare gol. Perché in fondo la passione per il mio lavoro e quella per il pallone hanno la stessa radice: l’energia di non fermarsi mai».
E forse è proprio questa la vera magia del dottor Marcello Canestri: la capacità di trasformare la fatica in passione, la necessità in vocazione, il mestiere in vita. Un uomo che non ha mai smesso di reinventarsi, di imparare e soprattutto di trasmettere fiducia.
Un sorriso racconta chi sei. Fallo curare da chi ci mette il cuore, chiama lo Studio Canestri e prenota una visita.



